L’insistenza di Salvini sulla cosiddetta tassa piatta oltre che anacronistica è ormai diventata stucchevole, come il personaggio che se ne fa alfiere, evidentemente a corto di idee e argomenti. Ma l’attrattività del tema suggerisce comunque di ritornarci e ragionarci, come bene hanno fatto Bertorello e Corradi sul Manifesto del 30 gennaio, soprattutto in vista di una tornata elettorale (prossima ventura?) che non si annuncia certo facile. Ciò detto, la riduzione e la semplificazione del carico fiscale, operati dalla flat tax, produrrebbero, secondo la vulgata destrorsa, due vantaggi: da un lato la riduzione della soglia di evasione (“paghiamo meno, paghiamo tutti”) e, dall’altro, di liberare risorse utili a migliorare il quadro economico generale, nonché i conti dello stato. Niente di più falso. Come noto, la flat tax è una classica imposta proporzionale, poiché l’aliquota fissa fa si che l’imposta da versare cresca proporzionalmente alla base imponibile. Ora è evidente che il passaggio da un sistema progressivo (ad aliquote crescenti) ad uno proporzionale favorirebbe, in termini di detassazione, soprattutto i percettori di redditi medio alti, venendo così meno quell’elemento redistributivo, di giustizia sociale, su cui poggia e insiste l’art.53 della nostra Carta costituzionale. Ma il problema non è, per così dire, solo etico (è giusto che i ricchi paghino di più). Perché un conto è lasciare più denaro nelle tasche dei poveracci, un altro in quelle dei benestanti. La cui propensione marginale al consumo, keynesianamente parlando, piuttosto che accrescere la domanda aggregata (cosa che accadrebbe se fossero i redditi medio-bassi a beneficiarne) finirebbe, fatalmente, per gonfiare attività speculative e finanziarie, come tante ricerche (e l’esperienza concreta) hanno largamente provato. Non solo. Si dà per scontato che l’ampliamento della platea dei contribuenti (riduzione dell’evasione) compensi il minor gettito dovuto al taglio delle aliquote, dimenticando -o facendo finta di dimenticare- che evasione ed elusione sono fenomeni che si contrastano con ferma volontà politica e strategie di lunga lena; insomma, niente a che vedere col semplicistico determinismo suggerito a Salvini dalla c.d. curva di Laffer, come del resto prova l’esperienza di paesi come Francia, Danimarca, Svezia… ad alta pressione fiscale e ridotta evasione. Cosicché, qualora andasse in porto, l’effetto ultimo della “rivoluzione” salviniana sarà un insopportabile ampliamento della forbice delle diseguaglianze e l’inevitabile peggioramento del livello e delle condizioni di godimento di welfare e servizi (vero bancomat dell’operazione), a maleficio di quanti sono “costretti” a servirsene. Insomma, più povertà, più debito e meno servizi. Che, in tempi di pandemia da Covid-19, equivale ad un clamoroso autogol, stante la riconosciuta necessità di un maggiore impegno pubblico in settori vitali quali sanità e istruzione anche per fare fronte al dilagante contagio. Sempreché, a sinistra, qualcuno sia disposto a rilevarlo e farlo valere.
a. p.